Nel corso della storia, ma mai come negli ultimi 300 anni, le attività umane hanno modificato il territorio causando il degrado degli ecosistemi. Secondo un nuovo studio è questione di qualche decennio, poi il cambiamento climatico ci rimpiazzerà: la biosfera terrestre verrà degradata più dai fenomeni climatici che dalle nostre attività dirette. Una prospettiva preoccupante, questa, perché quel punto poco aiuteranno normative, controlli, pianificazione, nella protezione degli ecosistemi e della biodiversità.
Unica opzione per evitare che ciò accada è garantire il successo degli accordi di Parigi confermati nel 2016 e non superare la fatidica soglia dei 2°C di aumento di temperatura globale, come suggerito dalla comunità scientifica internazionale.
Con l’agricoltura, la pastorizia, l’urbanizzazione, l’estrazione di materie prime, nel corso dei millenni abbiamo modificato continenti e oceani. Nei secoli più recenti tutto questo è avvenuto in maniera più rapida e invadente. Negli ultimi 300 anni, per esempio, la superficie terrestre adibita ad uso zootecnico è aumentata di oltre sei volte: da 524 a 3451 milioni di ettari. Quasi tutti sottratti a praterie e foreste, ecosistemi che si sono deteriorati e che sono stati il focus dello studio.
In breve, a causa della crescita della popolazione umana negli ultimi 25 anni circa un quarto degli ecosistemi terrestri si è deteriorata al punto da aver perso la propria funzione e produttività: insomma non ci sostengono più. Ecosistemi di cui abbiamo però bisogno per assicurare un futuro alla nostra (ed alle altre) specie.
“Oggi, 7,5 miliardi di persone contano sulla biosfera per una moltitudine di servizi ecosistemici essenziali”, scrive Sebastian Ostberg, del Potsdam Institute for Climate Impact Research (Germania), a capo del team che ha pubblicato lo studio sulla rivista Earth’s Future. Cosa avverrebbe dunque a livello della biosfera terrestre [non marina – NDR] se gli accordi di Parigi non venissero rispettati, o se si fallisse nell’obbiettivo di rispettarli?
Era questa la domanda che si sono posti i ricercatori del Postdam Institute. “Che il cambiamento climatico nella seconda metà di questo secolo avrà un impatto sugli ecosistemi è risaputo”, dice Ostberg. “Ma uno studio che cercasse di confrontare, e unificare, gli impatti sia dell’uso del territorio che del cambiamento climatico ancora non c’era.”
Il modello impiegato dagli scienziati tedeschi ha i suoi limiti, certo: “ogni modello è una semplificazione della realtà”, spiega Ostberg. E seppur sottolineando le incertezze sulle traiettorie climatiche del futuro, i ricercatori sostengono che il cambiamento climatico trasformerà il 16-27% degli ecosistemi continentali nel più ambizioso scenario, nel caso insomma del successo degli accordi di Parigi. Me nel caso di un fallimento il 48-65% degli ecosistemi subiranno un impatto importante. Mentre, sommati agli impatti legati allo sfruttamento diretto del territorio, nello scenario climatico peggiore gli impatti potrebbero essere gravi e su ben l’80% della superficie terrestre.
“Questi ecosistemi saranno completamente trasformati in qualcosa di nuovo rispetto al loro stato originale, quello in cui sarebbero senza l’impatto delle nostre attività e prima dell’acuirsi del cambiamento climatico dovuto all’essere umano”, dice Ostberg. Le specie che non saranno in grado di adattarsi a questi nuovi ambienti, e rapidamente, così come quelle che non saranno in grado di migrare, e rapidamente, saranno destinate alla estinzione, concludono gli studiosi.
La tundra, che ora ricopre un mero 10% delle terre emerse sarà tra le più colpite, sia che gli obiettivi di Parigi vengano raggiunti o meno (ma potrebbe non assolvere più alle proprie funzioni ecosistemiche già tra 20-40 anni nel caso di un fallimento di Parigi). Ma un grosso impatto lo subiranno anche foreste boreali e tropicali, che potrebbero vedere ridotte le loro funzioni già a partire dal 2040, fino a quasi diventare relitti verso la fine del secolo.
Un’altra visione allarmista, quella dei ricercatori tedeschi? E se le cose stanno tanto male, ha senso darsi pena per ridurre consumi, emissioni, impatti e costringerci a enormi rinunce come insistono gli esperti? Secondo Ostberg sì: “Mantenere il riscaldamento al di sotto di 2°C o superare tale soglia non è come scegliere tra “tutto va bene” e “siamo condannati”. Anche se l’obiettivo non potesse essere mantenuto, limitare il riscaldamento, per esempio, a 2,5°C sarebbe preferibile in termini di impatto piuttosto che non fare nulla e rischiare di raggiungere invece i 4 o 5 C°”. Insomma, come riportato dall’IPCC nella sua quinta valutazione, il rischio di attraversare più punti di non ritorno aumenta con l’aumento della temperatura. “Quindi direi che l’obiettivo dovrebbe essere quello di limitare il riscaldamento globale, per quanto possibile”, conclude lo scienziato.