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Rifiuti: il settore industriale supera i 9 miliardi ma sono a rischio gli obiettivi UE della Circular Economy al 2035

Non basta raccogliere rifiuti. Per farli sparire dalle nostre strade e per far partire ‘l’economia dei rifiuti’ serve un sistema di trattamento e recupero che ancora mostra la corda. In Italia la raccolta differenziata aumenta con un buon ritmo, passando dal 55,9% del 2017 al 58,8% del 2018. I maggiori player del settore si rafforzano e crescono. Prosegue l’integrazione tra il comparto della raccolta e quello della selezione e valorizzazione dei materiali. Ma le criticità non mancano: gli investimenti restano concentrati nei territori più avanzati; alcuni operatori minori sono in difficoltà; calano le operazioni straordinarie, anche a causa dell’incertezza nelle policy del nostro Paese. E soprattutto rimane il deficit di trattamento dei rifiuti alternativo alla discarica: gli impianti per la frazione organica sono mal distribuiti sul territorio e, in assenza di nuove costruzioni, al 2035 si perderà circa metà dell’attuale capacità di termovalorizzazione.

Il settore dispone di tecnologie e di operatori dinamici, ma fatica a operare in modo omogeneo sul territorio: è una macchina con un buon potenziale che non riesce a esprimere. Questo lo scenario che emerge da L’industria del waste management in Italia: quadro competitivo, scenari impiantistici, innovazione, l’Annual Report 2019 di WAS, il think tank sulle strategie di gestione dei rifiuti di Althesys, presentato oggi a Roma e discusso da un gruppo di esperti, stakeholder e rappresentanti delle istituzioni tra cui: Stefano Saglia, ARERA; Enrico Quaranta, AGCM; Alessandro Bratti, Ispra; Giovanni Vivarelli, Acea Ambiente; Michele Rasera, Contarina; Maurizio Giani, HERAmbiente; Alessandro Cecchi, IREN; Michele Zilla, Cobat; Massimo Centemero, Consorzio Italiano Compostatori; Chicco Testa, Fise Assoambiente; Filippo Brandolini, Utilitalia; Chiara Braga, Commissione Ambiente Camera dei Deputati; Paolo Arrigoni, Commissione Ambiente Senato.

“Il patrimonio impiantistico rimane uno dei nodi centrali delle strategie aziendali e, più in generale, di una politica di gestione dei rifiuti nel nostro Paese”, spiega Alessandro Marangoni, AD di Althesys. “Il gap infrastrutturale di cui tuttora soffrono alcune Regioni e la mancanza di un’opportuna pianificazione di mediolungo termine hanno generato negli anni ingenti costi economici e ambientali, sia per le imprese che per il sistema nel suo complesso. È, perciò, necessario sviluppare un’analisi di adeguatezza che consenta di pianificare e realizzare per tempo gli investimenti necessari per superare situazioni di emergenza permanente”.

L’analisi del WAS Report 2019 considera diversi scenari di produzione di rifiuti e la possibile evoluzione futura del parco impianti. In particolare, i termovalorizzatori non hanno visto incrementi significativi negli ultimi anni: gran parte di quelli previsti è rimasta sulla carta così che, senza nuove costruzioni, al 2035 si perderà circa la metà dell’attuale capacità. Ed è proprio il 2035 l’anno in cui, secondo le direttive UE sull’economia circolare, dovremo raggiungere l’obiettivo del 65% di recupero di materia dai rifiuti urbani e il limite del 10% al loro smaltimento in discarica. Occorre, quindi, disporre degli impianti necessari al trattamento della frazione organica e per il recupero energetico. Le infrastrutture dovranno crescere perché il raggiungimento dei target UE al 2035 comporterà un aumento sensibile della raccolta differenziata (dal 55,5% del 2017 al 76% del 2035) e del riciclo (dal 42% al 65%), ma anche del recupero energetico (dal 18% al 25%).

In ogni scenario di produzione di rifiuti urbani (da un minimo di 28,3 milioni di tonnellate a un massimo di 32,7 milioni di tonnellate), il Rapporto WAS evidenzia l’esistenza di un deficit nazionale tra la capacità autorizzata per la termovalorizzazione e il fabbisogno al 2035, che varia da poco più di 1 milione di tonnellate a circa 2. A questo va aggiunto un deficit di circa 3 milioni di tonnellate dovuto all’invecchiamento degli impianti in caso di mancata sostituzione.

Per l’organico, invece, si delinea una situazione diversa, caratterizzata da un’inadeguatezza della distribuzione territoriale piuttosto che da un deficit nazionale.

Questa situazione si inquadra in un comparto industriale articolato. Il valore della produzione dei 124 maggiori operatori della raccolta e trattamento dei rifiuti urbani ha raggiunto i 9,18 miliardi di euro, cresciuto nel 2018 del 4,9%. Queste imprese operano in 4.143 Comuni italiani (52,1% del totale), servono 40,5 milioni di abitanti (quasi il 70% della popolazione) e gestiscono 22,3 milioni di tonnellate di rifiuti urbani (il 75,5% di quelli prodotti nel 2017). Nel 2018 i loro investimenti hanno raggiunto i 477,5 milioni di euro, in aumento del 17,4% rispetto al 2017.

Prosegue il rafforzamento delle tre “major”, le grandi multiutility quotate che puntano a crescere per aggregazioni e a integrarsi. Da sole raccolgono il 22% dei rifiuti e servono il 21% degli abitanti, realizzando nel 2018 il 30% del fatturato del settore. Performance in contrasto con quelle dei sette operatori metropolitani, che, pur pesando per il 17% del settore (con 7,2 milioni di abitanti e il 19% dei rifiuti urbani raccolti), restano concentrati sulla raccolta e scontano la carenza di impianti.

Le piccole e medie monoutility presidiano con buoni risultati i propri ambiti locali, coprendo il 44% del totale e realizzando più di 2 miliardi di fatturato (il 22%). Hanno raccolto 5,7 milioni di tonnellate e servito 10,1 milioni di abitanti. Gli operatori privati, con il 16% dei rifiuti raccolti, hanno coperto il 23% dei Comuni, incidendo per il 14% del valore della produzione totale. Gli operatori del trattamento e smaltimento hanno generato il 7% del fatturato e gestito 3 milioni di tonnellate di rifiuti.

Il contesto di incertezza che condiziona il settore si è però riflesso sul numero di operazioni straordinarie realizzate. Le iniziative mappate per il 2018, infatti, sono state 23, in netto calo rispetto alle 28 del 2017 e alle 45 del 2016: in due anni in pratica si sono dimezzate.

“La transizione verso l’economia circolare sta tuttavia accelerando, sia nel trasformare l’industria del riciclo “storica”, sia spingendo l’innovazione e la convergenza tra settori diversi. La prima (dove l’Italia vanta posizioni da primato), si sta sempre più confrontando con le dinamiche dei mercati globali delle commodities, dove la volatilità di prezzi e volumi dei recovered material possono condizionare la sostenibilità economica del riciclo. D’altra parte, l’innovazione tecnologica e l’ingresso di nuovi player provenienti da business differenti, come la chimica e l’energia, stanno cambiando le regole del gioco, con una crescente convergenza tra comparti e la nascita di nuovi processi industriali e diversi segmenti dell’economia circolare”, conclude Marangoni.