Il progetto prevede la realizzazione di indagine geofisica 3D su una superficie di oltre quattromila km² nel mare Ionio, di fronte alle coste di Puglia, Basilicata e Calabria, effettuata con la tecnica della sismica a riflessione 3D e l’utilizzo dell’air-gun.
Legambiente ribadisce la sua opposizione al progetto perché, si legge in una nota, “l’utilizzo dell’air-gun può provocare danni alla fauna marina causando alterazioni comportamentali, talvolta letali, in specie marine assai diverse, in particolare per i cetacei, fino a chilometri di distanza”. Si tratta di una tecnica di ricerca di idrocarburi in mare che prevede il rapido rilascio di aria compressa che, producendo una bolla che si propaga nell’acqua, genera onde a bassa frequenza.
“Il rumore prodotto da un airgun è pari a 100.000 volte quello di un motore di un jet: ha quindi un grande impatto sulla fauna marina e può portare gravi danni fisici, all’udito e all’orientamento, fino alla morte degli animali marini”. Si tratta di una tecnica già controversa, criticata non solo dalle associazioni ambientaliste ma anche dalla comunità scientifica, da molte comunità locali e dai tanti cittadini che che hanno sottoscritto la petizione #StopOilAirgun per chiedere al governo di vietarne l’uso.
L’attività di prospezione e ricerca off–shore degli idrocarburi e, ancor di più, l’eventuale realizzazione di una piattaforma nel Golfo di Taranto rappresenterebbero un ulteriore carico che graverebbe su una città già ad elevato rischio ambientale, considerando la presenza contemporanea del Pontile petroli dell’Eni, della base navale della Marina Militare e del Porto. Si rischia di arrecare danni al posidonieto dell’isola di San Pietro peraltro inserito tra i siti di interesse comunitario (SIC), ai banchi coralligeni disposti lungo il tratto di litorale tra San Vito e Torre Saturo ed in località Chiatona che rivestono un alto valore naturalistico per la loro elevata biodiversità. E tutto questo, secondo i dati forniti dal Ministero per lo Sviluppo Economico, a fronte di riserve certe presenti sotto tutto il mare italiano che sarebbero in grado di soddisfare il fabbisogno energetico del nostro Paese solo per 7 settimane per il petrolio e 6 mesi per il gas.
“Insomma – continua la nota – trivellare il nostro mare è un affare per i soli petrolieri che grazie a leggi compiacenti vedono ridotto a nulla il rischio d’impresa, mettendo però ad alto rischio l’ambiente e l’economia costiera. Alle casse dello Stato italiano infatti, vengono versati dalle multinazionali del petrolio circa 350 milioni di euro all’anno: un’inezia”.
Legambiente chiede di “fermare l’assalto al nostro mare. Il nostro ‘petrolio’ – conclude l’associazione – è ben altro: produzioni alimentari di qualità, pesca, turismo, biodiversità, innovazione industriale ed energia alternativa”.