La buona notizia era arrivata giusto lo scorso 5 gennaio: il buco nell’ozono si sta finalmente riducendo, e sarebbe già ridimensionato del 20% rispetto al 2005. Ad appena un mese dall’annuncio però, una nuova ricerca sembra già destinata a ridimensionare l’ottimismo della comunità scientifica: se ai poli infatti lo strato di ozono sembra effettivamente in crescita, a latitudini inferiori – dove tra l’altro si concentrano le aree più popolate del pianeta – la situazione sarebbe molto diversa, e ben poco rassicurante. È l’allarme che arriva da uno studio internazionale apparso sulle pagine della rivista Atmospheric Chemistry and Physics, che ha analizzato la distribuzione dell’ozono nell’atmosfera utilizzando una innovativa tecnica satellitare.
Lo studio
I risultati dello studio, infatti, sono stati resi possibili dallo sviluppo di un nuovo algoritmo di analisi, con cui diversi team di scienziati di tutto il mondo hanno potuto mettere in comune i dati raccolti durante molteplici rilevazioni satellitari. In questo modo hanno ottenuto una lunga e robusta serie storica di misurazioni, che permette di studiare le oscillazioni dell’ozonosfera (la parte della nostra atmosfera in si concentra lo strato di ozono che protegge la superficie del pianeta dai raggi Uv) a partire dal 1985.
I risultati
Osservando il trend degli ultimi decenni, gli scienziati hanno potuto notare una situazione ambivalente. Da un lato, infatti, il buco dell’ozono propriamente detto (quell’ampia area al di sopra dei poli in cui lo strato protettivo di gas si stava assottigliando a ritmi vertiginosi) ha effettivamente iniziato a riprendersi. Ma dall’altro, il calo lento ma inesorabile dell’ozono atmosferico in tutte le altre aree del pianeta sembra addirittura peggiorato.
Un fenomeno – spiegano gli autori dello studio – che interessa un’area piuttosto estesa compresa tra i 60 gradi di latitudine Nord e i i 60 Sud. E che sarebbe particolarmente accentuato nelle parti più basse della stratosfera, tra i 15 e i 24 chilometri di altezza. Altitudini che si situano proprio ai margini della troposfera, la fascia più bassa dell’atmosfera dove l’ozono viene prodotto come gas inquinante dalle attività umane (quella sorta di caligine, chiamata propriamente smog fotochimico, che si osserva in estate nelle giornate particolarmente soleggiate). Una circostanza che, a parere degli autori dello studio, ha probabilmente aiutato a mascherare il fenomeno fino ad oggi.
Latitudini a rischio
“I livelli di ozono hanno continuato a diminuire globalmente più o meno a partire dagli anni ’80”, commenta Joanna Haigh, climatologa dell’Imperial College London che ha partecipato alla ricerca. “Ma se la messa al bando dei Cfc oggi sta producendo un miglioramento nella zona dei poli, a latitudini inferiori non sembra avere la stessa efficacia. E i potenziali danni potrebbero essere anche più drammatici di quelli che temevamo per il buco dell’ozono propriamente detto. La diminuzione è meno drastica di quella che si osservava ai poli prima del protocollo di Montreal, è vero, ma in queste aree le radioazioni Uv sono molto più intense, e vi abita un numero di persone molto maggiore”.
Le sostanze inquinanti
Le conclusioni della ricerca – assicurano gli autori – sono piuttosto solide. Quel che bisognerà accertare, piuttosto, sono le possibili conseguenze del fenomeno per la salute umana e la sopravvivenza degli ecosistemi terrestri. E – ancor più importante per pensare a una possibile soluzione – le sue cause. Per ora le ipotesi principali sono due: da un lato, i cambiamenti climatici degli ultimi decenni potrebbero aver modificato i pattern di circolazione atmosferica, determinando un maggiore prelievo di ozono dalle sue aree di produzione, situate grosso modo nella zona dei tropici, a beneficio delle zone polari. La seconda, forse anche più inquietante, è che esistano altre sostanze (oltre ai Cfc) in grado di danneggiare lo strato di ozono del pianeta. I candidati principali in questo caso sarebbero sostanze definite Vsls (very short-lived substances), prodotte in quantità crescente dall’attività umana e forse – azzardano i ricercatori – sottostimate dai modelli climatici attuali in quanto al loro potenziale impatto sull’ozonosfera.