Due parole bruttissime, usate pochissimo, ma progettate per stare insieme sin dagli anni Venti: obsolescenza programmata.
Invenzione del XX secolo, quello del progresso, del consumo e della distruzione, l’obsolescenza programmata è diventata nel XXI secolo, almeno in Francia, un delitto. Il caso Apple e quello meno noto delle stampanti Epson, Canon, HP, Brother, hanno aperto il varco ad un cambiamento che investe economia, ambiente, società. Casi giudiziari che diventeranno cultura, che ribalteranno – e speriamo con un equilibrio che tenga conto di tutte le variabili e tutte le istanze – uno dei capisaldi dell’economia: fissare a monte un tempo di vita dei prodotti per garantire il ricambio del vecchio col nuovo, il guadagno in bilancio annuale delle imprese produttrici, e anche – va detto – il finanziamento dell’innovazione tecnologica dei prodotti stessi, diventa reato.
Diventa reato costringere le persone a cambiare smartphone ogni anno. E forse domani sarà reato il consumo compulsivo.
I fatti recenti
La procura di Parigi ha aperto il 5 gennaio una inchiesta penale aggiungendo al delitto di obsolescenza programmata anche il reato di truffa, in un’inchiesta contro Apple sulla durata delle batterie degli iPhone. Non mi dilungo, ne scrivono tutti (ecco cosa ne dice Ansa). Altro fatto: la procura di Nanterre, sempre Francia, ha dato il via ad un’inchiesta per il delitto di obsolescenza programmata delle stampanti Epson, Canon, HP, Brother: secondo l’accusa (e molti di noi ci sono passati) accade che il tampone assorbente indichi falsamente il proprio fine vita in tempi anticipati e le stampe si blocchino con il pretesto che le cartucce sarebbero vuote mentre c’è ancora inchiostro (cartucce che sono arrivate a costare perfino 2.062 € il litro, più di uno Chanel n.5).
Entrambe le inchieste nascono da denunce di associazioni come HOP (Halte à l’obsolescence programmée) che invita tutti i consumatori a fornire ulteriori informazioni su vicende vissute di obsolescenza programmata.
Casi analoghi (cause contro Apple per gli iPhone) sono stati avviati anche in USA e Israele, ma è la Francia il primo paese che definisce formalmente il delitto di obsolescenza programmata. Lo fa, dopo proposte di vari schieramenti e associazioni ambientaliste sin dal 2011 e con declinazioni più o meno severe, con una legge che amplia i diritti dei consumatori, la Legge Hamon (dal ministro socialista che l’ha firmata nel 2014), e lo ribadisce all’interno della legge sulla transizione energetica del luglio 2015.
Storia di novant’anni fa
L’obsolescenza programmata nasce formalmente nel 1924, quando i produttori delle lampadine firmarono a Ginevra la Convenzione per lo sviluppo e il progresso dell’industria internazionale delle lampade elettriche a incandescenza. Dopo essersi battuti fin da quando esiste la luce elettrica per convincere i consumatori di vendere le migliori lampadine al mondo, Philips, General Electrics, Osram e gli altri big fecero cartello (detto Phoebus), si spartirono quote di mercato e stabilirono la durata massima di 1000 ore di vita di ciascuna lampadina, pena una sanzione salata, interna al cartello stesso. Lo fecero per venderne di più, ovviamente. Ma non solo: almeno sulla carta, si voleva garantire uno standard alto al consumatore, visto che dopo un certo numero di ore le lampadine avrebbero comunque perso luminosità. Un po’ quello che oggi dice Apple per i suoi rallentamenti programmati.
Dal 1924, l’obsolescenza programmata ha regolato moltissime produzioni. I consumatori, tutti, lo sanno bene. Chi non si è incavolato per i messaggi delle stampanti che dichiaravano la testina da sostituire per poi scoprire che la testina costa quasi più della stampante nuova (e sempre a patto di trovarla sul mercato), chi non ha bestemmiato perché l’aggiornamento del software non era compatibile con il sistema operativo, chi non ha perso le staffe perché lo scanner, il televisore, il microonde, la fotocamera si sono rotti due giorni dopo la scadenza della garanzia… Incavolati e inermi, tutti hanno incassato la sconfitta: era scritto, si sapeva, era scontato. Nessuno ha pensato alla truffa, men che meno ad un delitto dalla definizione oscura come l’obsolescenza programmata. O forse ci ha pensato, ma non c’era il reato. Non esisteva. E ancora non esiste, tranne in Francia.
La rivoluzione è alle porte
La Francia ha aperto il varco e l’onda arriverà, inevitabile. Populista, e negativa come qualcuno suggerisce, oppure realista, ambientalista o socialista… come sarà davvero quest’onda è tutto da scoprire. Buona probabilmente per molti aspetti, certamente quello del diritto del consumatore. Probabilmente in molti casi anche per quello sociale ed ambientale. Per quello economico, la partita è tutta da indagare.
Le componenti in gioco sono tante. E finora mai calcolate con precisione. Ma gli indizi che sia imminente ci sono tutti. Oltre al riconoscimento del “delitto” in Francia, la direttiva sull’ecodesign ne prende nota (direttiva recepita in Italia con il decreto n. 140 del 10 giugno 2016 in cui si chiede ai produttori di implementare le strategie di eco progettazione con azioni che favoriscono l’aumento della vita media dei prodotti e ne facilitino le operazioni di riparazione, permettendo l’aggiornamento tecnico. Chi dimostra di aver ridotto il costo di gestione di fine vita di un prodotto potrà richiedere una riduzione dell’ecocontributo). Anche l’Europarlamento ha dato un suo input approvando una mozione contro l’obsolescenza programmata e invitando la Commissione europea ad adottare misure contro questi metodi che fanno danni a consumatori e ambiente.
L’Onu Ambiente intanto ha pubblicato, a fine 2017, un rapporto sull’obsolescenza dei prodotti. Lo scopo di questo studio è fornire raccomandazioni sulle opportunità disponibili per i consumatori, il settore privato e in particolare i governi, delle economie sviluppate e in via di sviluppo, per affrontare correttamente le problematiche legate alla durata di ciò che compriamo.
Vengono analizzati sette prodotti tipo, che rappresentano le diverse aspettative di vita dei consumatori per i loro momenti di sostituzione ottimali e le vite effettive in paesi selezionati: l avatrici, frigoriferi, TV, telefoni cellulari, computer portatili e abbigliamento. Il rapporto fornisce tre prospettive politiche, due per lo sviluppo e una per i paesi in via di sviluppo (dove finiscono molti frigoriferi, ad esempio), per la progettazione di misure per affrontare l’estensione della durata del prodotto.
Come preambolo, l’Onu ricorda che l’idea generale quando si parla di allungare la vita di un prodotto è quella di arrivare a una situazione win-win: il consumatore può godersi il suo bene più a lungo, quindi con un costo finale inferiore, l’azienda non deve ridurre i suoi margini e la pressione sull’ambiente deve essere equilibrata. L’ideale, insomma. Ma tutt’altro che facile da calcolare.
I miglioramenti suggeriti dal Rapporto Onu sono di tre categorie: l’aumento del tempo di utilizzo di un prodotto, il miglior design dei prodotti attraverso la loro progettazione e la loro manutenzione, e il miglior supporto dei prodotti in caso di guasto attraverso la riparazione o riconfezionamento.
Lo studio esamina sette dispositivi e tenta di definire un periodo al termine del quale è interessante dal punto di vista ecologico sostituire il suo bene con un nuovo prodotto (tramite analisi LCA, ossia lungo tutto il ciclo di vita del prodotto stesso).
Nel valutare l’impatto della loro fabbricazione e del loro uso, una lavatrice e un frigorifero dovrebbero, ad esempio, durare almeno dieci anni prima di essere sostituiti con prodotti di nuova generazione, a patto che questi siano costruiti in modo energeticamente più efficiente. Un televisore, al contrario, non dovrebbe essere cambiato, perché i nuovi consumano sempre di più (fino al 30% per una nuova tv).
Ovviamente dovrebbero essere presi in considerazione diversi parametri, come il numero di ore in cui il televisore viene acceso ogni giorno e le sue dimensioni, ma alla fine dei conti, l’Onu dice che una sostituzione prima degli 8-10 anni non è auspicabile. Per quanto riguarda i telefoni cellulari, le fasi più impattanti dal punto di vista ambientale nel ciclo di vita del prodotto sono quelle di estrazione e produzione (si tratta di materie prime preziose, rare, difficili da trovare e trattare, che andrebbero recuperate). L’impatto della fase di utilizzo è inferiore (anche se è in aumento): questo comporta che il tempo a partire dal quale è meglio cambiare i telefoni può arrivare fino a 12 anni. Non accade: i telefoni vengono sostituiti per lo più a causa di aggiornamenti non più supportati o per le offerte di operatori mobili che offrono modelli gratuiti o con grandi sconti. I computer portatili, invece, secondo l’Onu, avrebbero una durata ottimale di almeno sette anni. Questo periodo può, a seconda dell’ipotesi, salire persino fino a 88 anni.
La Francia, così come il Portogallo, ha dato un esempio – dice l’Onu – aumentando il periodo di garanzia legale a due anni, vale a dire il periodo durante il quale l’onere della prova è a vantaggio del consumatore. Sempre la Francia, come s’è visto, è stato il primo paese al mondo a definire il crimine dell’obsolescenza programmata. L’Onu quindi auspica una più ampia adozione di queste misure, in particolare nell’Unione europea. L’UE ha inoltre una direttiva sulla progettazione eco-compatibile che stabilisce i requisiti minimi per determinati tipi di prodotti venduti sul suo territorio. Il progresso legislativo suggerito consisterebbe nell’estendere il numero di prodotti soggetti alla presente direttiva. Il rapporto raccomanda anche la visibilità della durata di servizio, la fornitura di manuali di riparazione e una riduzione dell’IVA sulle attività di riparazione. Il “Diritto alla riparazione”, nel frattempo, consentirebbe a “singoli e riparatori indipendenti di avere accesso alle stesse informazioni e ai pezzi di ricambio dei produttori, dei rivenditori autorizzati e dei riparatori”. In ogni caso, è rinforzando l’informazione per il consumatore e la sua educazione che si potrà affinare le sue scelte di consumo, e quindi cambiare il modo di produzione.
A proposito delle modalità di produzione, il rapporto suggerisce di introdurre incentivi finanziari per estendere la vita di prodotti, come la riduzione delle imposte sui prodotti rigenerati e una garanzia su questi stessi prodotti. Altra proposta, l’introduzione della responsabilità estesa del produttore: è una strada promettente, dice l’Onu, come è avvenuto in Giappone dal 2001, dove i produttori sono responsabili dei loro prodotti anche in viaggio.
Perché l’Onu, se da una parte giustamente si preoccupa di limitare i consumi inutili per il bene dei portafogli dei consumatori e per quello dell’ambiente da cui tutte le materie prime vengono estratte e a cui tutti i rifiuti vengono destinati, comprese le emissioni di ogni fase di vita del prodotto, dall’altra non può non tener conto dell’economia e di conseguenza di quel benessere finanziario che alimenta anche la ricerca e l’innovazione.
ll progresso tecnologico consente alle aziende di produrre beni sempre più complessi e all’avanguardia, che sono messi a disposizione dei consumatori. Questa avanguardia è frutto di ricerca e innovazione e, ovviamente, costa. Da qui nascono varie necessità: offrire al mercato un prodotto relativamente abbordabile per i più, fare profitti, e coniugare tutto questo con le esigenze del pianeta non infinito che abbiamo a disposizione. E la soluzione talvolta, paradossalmente, può chiamarsi persino obsolescenza programmata, se consente al consumatore di beneficiare di modelli sempre più innovativi ed efficienti, al contempo a buon mercato, mentre l’azienda riesce a maturare profitti e migliorare le prestazioni ambientali del prodotto.
I calcoli di tutto questo, però non sono ancora stati fatti. Quindi, nel frattempo, benvenuta rivoluzione.
Rapporto completo Onu – obsolescenza prodotti (in lingua inglese)