È in fiamme il grande Sud. Nelle Pampas e in Patagonia da metà dicembre a oggi sono andati in cenere oltre 1.400.000 ettari, un’estensione pari a quella della Calabria. Le province più colpite sono quelle di Río Negro, La Pampa e Buenos Aires nelle quali, solamente nel mese di dicembre, si sono contati 130 focolai. Vigili del fuoco e gendarmeria lavorano giorno e notte per confinare gli incendi mentre al Ministero dell’Ambiente e dello Sviluppo Sostenibile si parla già di una delle più gravi catastrofi naturali della storia dell’Argentina.
Un evento di straordinaria intensità alimentato dalle scarse precipitazioni e dalle temperature record del 2016, ma non per questo inaspettato: tra il febbraio e l’aprile del 2015 nella provincia del Chubut bruciarono 41.000 ettari della delicata foresta decidua endemica.
“Gli ecosistemi della regione sono naturalmente soggetti a incendi, con un tempo di recidiva normalmente compreso tra i 20 e i 25 anni” spiega Guillermo Defossé, professore di Ecologia all’Università Nazionale San Giovanni Bosco della Patagonia. “Durante il secolo scorso il numero degli incendi era drasticamente diminuito grazie a un’efficace politica di prevenzione degli incendi ma soprattutto per la pressione dell’allevamento”.
Il pascolo di bovini e ovini rimuove periodicamente erbe e arbusti che possono funzionare da innesco per gli incendi. Ma negli ultimi decenni il crollo del prezzo della lana e la frequente siccità hanno costretto numerosi allevatori a ridurre il numero di capi o abbandonare del tutto l’allevamento. “L’abbandono ha aumentato la disponibilità e la quantità di combustibili pregiati” conclude Defossé. I temporali che hanno colpito la regione in dicembre hanno fatto il resto: secondo la protezione civile di La Pampa, oltre il 60 percento degli incendi sarebbe stato appiccato da un fulmine.
Predisposizione naturale degli ambienti, stagnazione economica e cambiamento climatico: in un fenomeno di tali proporzioni è difficile districarsi tra le singole responsabilità. Di certo, la gestione dell’emergenza è stata deficitaria. Già dai primi focolai di metà dicembre Guillermo Barisone, direttore del servizio nazionale di prevenzione degli incendi, aveva lanciato l’allarme: il 35 percento delle 107 autopompe a disposizione risultava fuori servizio. Una percentuale cospicua per un parco macchine già carente. Per ripararli e coprire il costo di esercizio di tutti i mezzi impegnati nell’attuale emergenza, il suo istituto ha già sborsato il 90 percento dei fondi assegnatigli dal governo, pari a 27 milioni di euro. I vigili del fuoco dispongono anche di diciotto canadair, cinque ricognitori e otto elicotteri.
Nel mezzo della bufera, il ministro dell’Ambiente e dello Sviluppo Sostenibile Sergio Bergman rifiuta di presentare le proprie dimissioni, accusando la precedente amministrazione di Cristina Kirchner di aver tagliato di quasi 40 milioni di euro i finanziamenti al proprio ministero. Nel frattempo, il deputato e attivista ambientale Juan Carlos Villalonga sottolinea come gli incendi e le contemporanee inondazioni che hanno colpito il nord del paese rappresentano la prova che il cambiamento climatico è già in atto. Pur appartenendo allo stesso schieramento, Villalonga ha spesso denunciato l’inerzia dell’attuale governo presieduto da Mauricio Macrì nell’affrontare le tematiche ambientali. Nel balletto delle responsabilità politiche, la Patagonia continua a bruciare.