È la proposta contenuta nel rapporto curato dal Wwap (il World water assessment programme dell’Unesco) e reso noto in occasione della Giornata mondiale dell’acqua che si celebra oggi.
Lo studio parte dall’aggiornamento di dati già noti (nel 2012 nei Paesi a reddito medio e basso sono state 842 mila le vittime dell’acqua contaminata e dei servizi igienici inadeguati) ma rovescia la prospettiva aggiungendo un senso economico positivo a una scommessa che finora era stata vista come un costo da pagare per evitare un danno: le acque reflue non più solo come elemento di possibile contaminazione sanitaria e ambientale ma come fonte di materie prime.
Grazie agli sviluppi delle tecnologie di trattamento, alcuni elementi nutritivi – come fosforo e nitrati – possono essere recuperati dai reflui fognari e dai fanghi per venire trasformati in fertilizzanti. Secondo le stime Onu, il 22% della domanda globale di fosforo, un minerale già eccessivamente sfruttato, potrebbe essere soddisfatto attraverso il trattamento dell’urina e degli escrementi umani. Paesi come la Svizzera hanno già approvato leggi sull’obbligatorietà del recupero di elementi nutritivi come il fosforo.
E dagli scarti liquidi si può estrarre anche energia: “Le sostanze organiche contenute nelle acque reflue”, si legge nel rapporto, “potrebbero essere utilizzate per la produzione di biogas, che potrebbe quindi rifornire di energia gli impianti di trattamento dei reflui, agevolando così la loro trasformazione da impianti ad alto consumo di energia a impianti a consumo zero o addirittura produttori netti di energia. In Giappone il governo si è prefissato l’obiettivo di recuperare il 30% dell’energia da biomassa ricavabile dalle acque reflue entro il 2020. Ogni anno la città di Osaka produce 6.500 tonnellate di biosolidi ricavati da 43 mila tonnellate di fanghi di depurazione”.
Oggi questo fiume di risorse liquide non solo viene sprecato ma spesso si trasforma in inquinamento, perché l’80 per cento delle acque reflue non è trattato. L’eccesso di sostanze nutritive (azoto, fosforo e potassio) provenienti dall’agricoltura intensiva e i solventi e gli idrocarburi prodotti dalle attività industriali accelerano così l’eutrofizzazione delle acque dolci e degli ecosistemi marini costieri. Utile dal punto di vista economico- ecologico, il recupero delle acque diventa poi indispensabile se si guarda al trend dei consumi.
Le aree attrezzate per l’irrigazione sono più che raddoppiate in mezzo secolo (dai circa 1,4 milioni di chilometri quadrati del 1961 ai 3,2 milioni di chilometri quadrati del 2012) e cresce la domanda da parte degli altri settori: si prevede un aumento del 50% del fabbisogno idrico totale entro il 2030 (mentre già oggi i due terzi della popolazione mondiale vivono in aree colpite da scarsità di acqua almeno un mese all’anno). La capacità di recupero diventerà dunque sempre più importante e influenzerà anche i bilanci industriali. Secondo una ricerca del 2007, il volume delle acque reflue industriali raddoppierà entro il 2025; ed entro il 2020 il mercato del trattamento dei reflui industriali dovrebbe crescere del 50%. “La tecnologia a livello avanzato è già matura: gli astronauti della Stazione spaziale internazionale riutilizzano la stessa acqua, quella che bevono e quella con cui si lavano i denti, da oltre 16 anni“, spiega Stefan Uhlenbrook, coordinatore del Wwap. “Ora si tratta di tradurre questo sapere in strumenti low tech che lo rendano accessibile anche ad applicazioni nei paesi poveri sempre più colpiti dalla siccità. E l’Italia ha un grande futuro in questo campo grazie alle sue capacità ingegneristiche: è un’attività che ha un notevole potenziale anche dal punto di vista della creazione di posti di lavoro“.
“Il 70 per cento dei consumi di acqua dolce, a livello planetario, è legato all’agricoltura ed è dunque su questo settore che conviene concentrarsi puntando, oltre che sull’innovazione tecnologica, su un cambiamento degli stili di vita basato su due capisaldi“, aggiunge Andrea Segrè, agronomo all’Università di Bologna e fondatore di Last minute market. “Il primo è la dieta mediterranea che utilizza in un anno poco più di 1700 metri cubi di acqua pro capite, mentre la dieta anglosassone basata su un consumo di carne più alto finisce per assorbirne fino a 2600. Il secondo caposaldo è un argine contro lo sperpero d’acqua legato agli sprechi alimentari: ogni anno, assieme al cibo, in Italia buttiamo via 16 milioni di tonnellate di acqua, l’equivalente del lago d’Iseo“.