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Il disastro di Bagnoli, 350 milioni persi. Lo Stato fa fallire se stesso

Bagnolifutura (controllata dal Comune di Napoli) fallita su istanza di Fintecna, azienda del Tesoro.

Lo Stato che manda in fallimento lo Stato. Fino a questo punto è arrivata la follia che da vent’anni si è impossessata di Bagnoli. Assenza di visione strategica, inettitudine, disinteresse, clientelismo, cattiva politica, burocrazia: in questa storia non manca davvero nulla. Nemmeno la rabbia per lo spreco immane di risorse, nell’assistere inermi allo spettacolo di un patrimonio simile che va in rovina dopo che sono stati gettati via 300, forse 350 milioni di euro senza creare un solo posto di lavoro. «Se riparte Bagnoli riparte il Sud», proclamava Matteo Renzi il 29 agosto dello scorso anno. Nella legge Sblocca Italia aveva infilato una norma per sbloccare anche Bagnoli. Il risanamento e la sistemazione dell’immensa area dell’ex acciaieria Italsider sarebbe stata affidata a un commissario, per dare finalmente una svolta a una incredibile vicenda che si trascinava senza costrutto dal 1992. Da allora sono passati otto mesi, e del commissario nemmeno l’ombra. Uno smacco clamoroso per il governo «del fare». Di fronte alla prospettiva che dopo vent’anni il boccino tornasse di nuovo nelle mani dello Stato centrale, il sindaco di Napoli Luigi De Magistris è insorto. Poco importa che nei tre lustri passati, durante i quali la faccenda è stata gestita dalla politica locale, siano stati combinati solo disastri. Ma c’è dell’altro, oltre le barricate comunali, a ostacolare il commissariamento di Bagnoli.

Il fatto è che da due anni gran parte dell’area è sotto sequestro: i magistrati contestano le modalità con cui sarebbero state realizzate negli anni le bonifiche dei suoli e hanno mandato un mucchio di gente sotto processo. Non bastasse, poi, c’è di mezzo anche il fallimento della società pubblica, Bagnolifutura spa, controllata dal Comune di Napoli incaricata a suo tempo di gestire l’operazione. E a farla fallire, l’anno scorso, è stata un’altra società pubblica. Si chiama Fintecna, ed è l’erede dell’Iri ora controllata dal Tesoro. È il colmo, anche perché questo rende nella sostanza inutile l’arrivo di un commissario, almeno per com’è stato definito nello Sblocca Italia. Le aree sono sequestrate e ciò che non è sequestrato dai magistrati è in procedura fallimentare, affidata a cinque curatori: Francesco Fimmanò, Vincenzo Moretta, Giovanna Carrieri, Francesco Palmieri e Mauro Marobbio. Circa 200 milioni i debiti da onorare, e senza quei soldi non si va da nessuna parte. Poi ci sono gli altri soldi che servirebbero per far «ripartire» Bagnoli, come dice Renzi. E qui è buio pesto. Un posto così non ce l’ha nessun Paese al mondo. È un’area più grande del Principato di Monaco, ma in pianura, di fronte a uno scenario unico: sul mare, dirimpetto alle isole di Procida e Ischia. L’ideale per qualunque progetto, a patto di averne uno. Come a Bilbao, per esempio. Vi chiederete: che cosa c’entra con questa storia? C’entra eccome. Anche a Bilbao c’era un’acciaieria che doveva essere chiusa, a ridosso del centro urbano. L’hanno smantellata trasformando l’area in un grande parco che è diventato il polmone verde della città. L’operazione ha cambiato la faccia di Bilbao, rimettendo anche in moto l’economia. Sulla sponda opposta del fiume Nerviòn, che attraversa la città, è sorto il museo Guggenheim: con il risultato che il centro operaio degradato e decadente si è trasformato in un formidabile attrattore di turismo e moltiplicatore di affari. Con relativi posti di lavoro. Il bello è che si era ipotizzato di metterlo, quel museo, a Bagnoli. Ovviamente non se n’è fatto nulla, e non è l’unico affare che gli spagnoli hanno soffiato a Napoli. Eppure Bilbao non è nemmeno lontanamente paragonabile a Bagnoli. Basta una passeggiata sul pontile lungo 800 metri che arriva in mezzo al mare, dove l’isoletta di Nisida sembra di toccarla, per rendersene conto. Ma quella passeggiata fa capire anche perché il museo non è arrivato qui. Ottocento metri sospesi sul mare, per una larghezza tale da poter ospitare bar e ristorantini in uno scenario incredibile, considerando che al tempo dell’acciaieria lì sopra ci passavano i treni. Eppure non c’è un bel niente. Giusto una fontanella dell’acqua per dissetare quelli che sul pontile fanno jogging. Non che non ci avessero pensato, sia chiaro. Esiste anche una spaziosa cabina sopraelevata, in una posizione spettacolare, che avrebbe potuto servire allo scopo. L’avevano ristrutturata, poi la cosa non è andata avanti: come tutto il resto. E non ha neppure senso chiedersi perché «La storia di Bagnoli» comincia quasi trent’anni fa, quando a Bruxelles si decide che l’Europa produce troppo acciaio e si devono chiudere alcuni altoforni. Manco a dirlo, tocca all’Italia: la sorte dell’Italsider, nonostante sia uno degli impianti più tecnologicamente avanzati, è segnata. Nel 1992 l’acciaieria viene chiusa, i pezzi buoni si vendono agli indiani e ai cinesi, che con quelli ci faranno concorrenza. E il resto si comincia a smontare. Molto lentamente, però. Non c’è nessun progetto.

Più che sistemare un’area così preziosa (più di 200 ettari in pianura sul mare con l’alta velocità ferroviaria a due passi e ben due linee di metropolitana) per farne una nuova occasione di sviluppo, la preoccupazione dei politici sembra essere quella di garantire il posto di lavoro a 360 ex operai impegnati nella bonifica. Che dunque deve durare più a lungo possibile. Tramonta l’idea del museo Guggenheim. Tramonta anche quella di realizzare un grande acquario. Mentre il progetto di farne un campo da golf non viene nemmeno preso in considerazione: come si può pensare di trasformare un posto dove lavoravano gli operai in un luogo di svago per ricchi? Nel frattempo all’Iri subentra il Comune di Napoli con una sua società battezzata Bagnolifutura, e una sessantina di dipendenti. Spunta il piano suggestivo di far nascere lì la Città della Vela, puntando sulla Coppa America che si terrà nel 2007. L’edizione del 2003 l’ha vinta un imprenditore italo-svizzero, Ernesto Bertarelli con la sua Alinghi. Che però alla fine sceglie la maggiore affidabilità degli spagnoli e se ne va a Valencia. E dopo che la suggestione è evaporata, si procede con iniziative casuali e talvolta assolutamente insensate. In compenso, costosissime. I silos vengono ristrutturati per ospitare un centro per le tartarughe marine: una decina di milioni. Quindi ecco la città dello sport: altre decine di milioni. Poi si progetta un grande auditorium, con un enorme bar e un centro benessere per ricconi: 46 milioni. Chiamano il tutto «La Porta del Parco» ma il parco ovviamente non c’è. Completata quattro anni fa, la spa non è mai stata aperta. Per giunta, non ha nemmeno l’acqua termale nonostante lì sotto ci sia dappertutto, a 42 gradi di temperatura, e le sorgenti si trovino a pochi metri di distanza. Ma la competenza delle acque è regionale mentre la società è comunale. Mai aperto il bar: come la spa era stato assegnato a un gestore che non l’ha mai preso in carico. Chi mai frequenterebbe un bar, o una spa, in un posto simile? Il fallimento è un esito scontato. I debiti contratti con Fintecna per la cessione delle aree non sono stati onorati, e il creditore si rivolge al tribunale. Il fatto che creditore e debitore siano entrambi pubblici è appena un dettaglio. Anche se decisamente grottesco. E oggi è tutto fermo, immobile, paralizzato. Mentre la spa cade a pezzi, il bar cade a pezzi, i resti di archeologia industriale cadono a pezzi, e cade a pezzi anche la città dello sport, i politici continuano a litigare senza costrutto. Avendo come unica certezza l’assoluta mancanza di idee.

(Fonte: Corriere Della Sera)