«Abitavo lì, in quella casetta a due piani con mio marito, dietro il minimarket». Tanako ha 68 anni ed è una delle migliaia di persone che il 12 marzo del 2011 è stata costretta a lasciare in fretta e furia la sua casa. È stata catapultata a centinaia di chilometri di distanza, a Chiba, zona di Tokyo.
Siamo a Tomioka, un tiro di schioppo a Sud della centrale nucleare di Fukushima Daiichi. Oggi zona off limits. Ci entrano solo – tutti i giorni dalle 9 alle 16 – centinaia di operai (per loro il governo ha costruito alberghi sul limitare della zona rossa) per demolire e decontaminare quel che rimane dopo lo tsunami che l’11 marzo del 2011 ha devastato la costa centro-orientale del Giappone, provocato 16 mila morti e danneggiato i reattori dell’impianto energetico della Tepco che ha provocato il più grande disastro nucleare dai tempi di Chernobyl nel 1986.
Da quasi sei anni Tomioka, 14 mila abitanti, è una città fantasma. Il tempo si è fermato, immobilizzando memorabilia e ricordi, ninnoli, vite e case. Nel parco giochi restano solo i cigolii di altalene arrugginite e scivoli scoloriti. L’unica cosa “viva” è il memoriale a due poliziotti: la loro auto di servizio ridotta a un mucchio di lamiere dalla furia delle onde. Attorno lumini, qualche candela accesa, bigliettini, preghiere, in una cassetta. Il corpo di uno degli agenti è stato trovato 24 ore dopo lo tsunami, il nome del collega è ancora nella lista dei dispersi.
Cartelli sulle vetrine dei negozi con prezzi e sconti fermi a quel giorno, vasi di piante sui davanzali, le biciclette appoggiate ai muri, qualcuna legata a cartelli stradali, erba bruciata, dall’incuria degli anni più che dalle radiazioni. Un tempo alte, ora tornate entro limiti accettabili. Agli incroci delle strade qualche pannello ne indica il livello. Bisogna stare sotto, 3,37 microsievert, valore limite per la sicurezza. Sulla strada fra Iwaki, 50 chilometri a sud dall’«epicentro» del dramma («lì – dice un rappresentante della municipalità – le onde erano di 7 metri») e Tomioka, ne abbiamo contati almeno una decina, microsievert al massimo a 1,17, ovvero abbassati centinaia di volte rispetto a quelli registrati cinque anni fa.
Ma non basta per far risorgere il paese dei ciliegi in fiore. Una volta il treno rallentava quando varcava la soglia di Tomioka; transitava sotto un lunghissimo arco naturale di fioritura rosa, i passeggeri si affacciavano ai finestrini per cogliere in uno scatto la primavera che sbocciava. Poster e ritratti hanno immortalato quel paesaggio divenuto una delle immagini del Giappone. «Quella scena non la rivedremo mai più», dice Tanako nell’unico momento in cui la commozione vince sugli sforzi che fa – adesso che di lavoro fa praticamente la «guida turistica sulle strade del disastro» – per dare senso e dignità al suo paese che vorrebbe un futuro non più da fantasma.
La piccola stazione ferroviaria è uno spiazzo vuoto, le pensiline che erano rimaste aggrappate per miracolo a due colonne sono state abbattute. I binari sono occupati da anonimi sacchi neri. Sono moltissimi, uno in fila all’altro, distanziati di dieci metri. Contengono scarti e materiale con isotopi di cesio e stronzio radioattivi. Non possono finire nell’inceneritore che lavora a pieno regime qualche chilometro più a Sud. Per ora non si sa dove saranno stoccati. Sono accumulati a centinaia dinanzi al mare e sulla spiaggia. C’è una forte opposizione a smaltire il materiale contaminato sul territorio e qualche mese fa il governo ha ipotizzato di costruire una discarica sotto il fondale marino, a una dozzina di chilometri dalle coste di Fukushima. I pescatori sono contrari, temono fuoriuscite letali per le acque. C’è il rischio dei movimenti di placche tettoniche, altri terremoti, altri tsunami. «Ma uno devastante come questo – spiegano gli esperti – ci sarà solo fra mille anni». Magra consolazione. Come ha detto Green Action, associazione di Kyoto che si batte contro il nucleare è «troppo facile pensare di smaltire le scorie nel mare solo perché sulla terra non si sa come fare».
In quello che era il giardino di casa, Tanako racconta e descrive minuziosamente cosa c’era dentro: «Lì la cucina, dietro quella porta un tavolo». Sogna di tornare a bere il tè nella veranda. Un sogno che le sembra di toccare, accarezzare, mentre ne parla. Pensa anche a coltivare mirtilli nel bosco che porta alla scogliera laddove sorgeva un ristorante con un balcone naturale a strapiombo sul mare. Vista mozzafiato. «I giovani ci andavano per sposarsi, io lì da giovane facevo la cameriera». C’è ancora un altare, tre gradini e gli spuntoni di un baldacchino. Tutto travolto dalle onde, «qui erano 27 metri». Il terreno – dicono i test – è ripulito oltre al 98%. «Voglio vivere a Tomioka, trasformare la mia casa in un posto dove le persone possano venire per stare in compagnia e sapere quel che è successo». Le sue parole stridono con quello che ci circonda. Un vento forte sferza l’aria, le piante brulle e spoglie, finestre sprangate, un camioncino va e viene lungo la strada, carico di materiali da buttare. Non si ricostruisce ancora, si demolisce e basta. Il marito di Tanako non ha più messo piede a Tomioka.
«Sta tutto il giorno in casa, continua a leggere», dice la donna facendo capire che «lui ha perso la speranza». I piani del governo di Tokyo e della Tepco prevedono che nel 2017 la cittadina potrà essere di nuovo abitata. A Naraha, 25 chilometri dall’impianto maledetto, qualcuno è rientrato prima dell’estate. Ma tutto resta ancora «sigillato», entro un raggio di 20 chilometri dalla centrale nucleare non si vive più. Solo luoghi fantasma. Alle 16 suona la sirena. Tomioka chiude i cancelli, scende un silenzio spettrale. Lontano da qui a Tokyo il governo tiene aperto il dossier energetico e chiusi 46 dei 49 reattori del Paese.
«Certo che ci converrebbe usare il nucleare, le energie rinnovabili non possono soddisfare la nostra fame energetica – spiega Takeshi Komoto, consigliere del premier per l’Abeconomocis – ma i costi della sicurezza impongono di percorrere altre vie». Così a Koriyama, città della stessa prefettura di Fukushima nel 2013 è nato il Frea, un centro ipertecnologico che produce energie rinnovabili: geotermiche, eoliche, solari, idrogeno. Ora fornisce il 20% del fabbisogno regionale, nel 2030 sarà al 22%. L’obiettivo – spiega il direttore – è sfondare quota 50% nel 2040. Forse quel giorno Tomioka non sarà più una città fantasma.