Questo non implica solo che i colossi petroliferi pagheranno via via meno tasse ma che presenteranno anche il conto per l’onerosa attività di smantellamento delle loro operazioni – smantellamento che per legge in Gran Bretagna gode dei sussidi pubblici. Il conto per lo Stato si preannuncia salato: circa 25 miliardi di sterline.
Lo ha calcolato la società di ricerche Wood Mackenzie snocciolando cifre lontane da quanto preventivato dal ministero del Tesoro britannico, che aveva calcolato per le casse pubbliche un costo di 16 miliardi di sterline per il decommissioning nel Mare del Nord. I nuovi piani industriali per la chiusura dei pozzi e lo smantellamento di piattaforme e reti di distribuzione indicano però che l’attività sarà maggiore, con una spesa per i gruppi petroliferi di 53 miliardi di sterline a partire da quest’anno, che lo Stato coprirà per un po’ meno della metà . Solo di qui al 2021 Londra subirà un costo di 5 miliardi di sterline, ma le operazioni proseguiranno per 40 anni.
L’anno scorso l’esborso di Londra per i sostegni pubblici alle attività di dismissione nell’industria petrolifera ha superato per la prima volta le entrate dalle attività nel Mare del Nord. Nel 2017 è previsto un deficit di 500 milioni di sterline, poi il Tesoro prevede il ritorno a un modesto surplus nei prossimi cinque anni grazie a nuovi sfruttamenti che entrano in produzione, anche se molto dipende dall’andamento dei prezzi del petrolio. Dal Mare del Nord sono stati estratti 43 miliardi di barili dal 1967; ne restano 10-20 miliardi, secondo l’associazione di settore Oil &;amp Gas Uk. Il decommissioning è una delle grandi questioni aperte per l’industria petrolifera del Mare del Nord, secondo Dougie Youngson, research director per il settore oil&;ampgas del broker britannico Finncap, che vede il decommissioning come una specie di arma a doppio taglio: potrebbe scoraggiare le aziende dall’investire e avviare nuovi progetti di esplorazione, ma è un’importante area di crescita per il settore dei servizi. “Il settore dei servizi ha una preziosa occasione di guadagno; sarà un braccio di ferro tra governo e industria per capire chi paga”, ha dichiarato Youngson.
La questione è attentamente seguita dal governo scozzese che non ha nessuna intenzione di contribuire ai sussidi per il decommissioning (l’Inghilterra è stata la maggiore beneficiaria dei proventi fiscali delle operazioni nel Mare del Nord, ora è l’Inghilterra a dover pagare il conto, sostiene Edimburgo) e al tempo stesso vuole trarre profitto sia dai servizi per il decommissioning sia dall’attività oil&gas offshore che ancora esiste. Wood Mackenzie calcola che nei prossimi cinque anni 142 giacimenti della piattaforma continentale britannica (Ukcs) cesseranno la produzione; i costi complessivi sfiorerebbero i 90 miliardi di sterline in 30 anni e la Scozia potrebbe catturare una buona fetta di questa spesa creando anche nuovi posti di lavoro.
“Alcune delle maggiori strutture oil&gas nel Mare del Nord sono state costruite nelle Highlands e nelle Islands e nel tempo sarebbe grandioso vederle qui per uno smantellamento sicuro ed efficiente”, ha dichiarato Gavin Mackay, head of oil&gas della Highlands and Islands Enterprise (HIE), agenzia di sviluppo economico del governo scozzese. La Scozia vuole proporsi come centro di eccellenza su scala internazionale per il decommissioning e assistere lo sviluppo e la consegna di soluzioni ad hoc concentrandosi su sei obiettivi strategici: informazione, supply chain, tecnologia e innovazione, infrastrutture, competenze & formazione, opportunità internazionali. Mike Tholen, upstream policy director di Oil & Gas Uk, concorda: “Questo piano d’azione evidenzia le opportunità che possiamo avere nel portare in Scozia le aziende del petrolio e del gas per dar loro accesso all’emergente mercato del decommissioning”.
Attualmente, secondo IHS Markit, la media è di 120 progetti oil&gas chiusi nel mondo in un anno, ma nei prossimi cinque anni si prevedono 600 progetti smantellati in Uk, Norvegia, Golfo del Messico statunitense e Australia (e altri 2.000 fino al 2040). I costi saliranno da 2,4 miliardi di dollari nel 2015 a 13 miliardi di dollari per ogni anno fino al 2040, calcola IHS Markit, e l’Europa assorbirà il 50% della spesa in decommissioning di qui al 2020 proprio per la dismissione di grandi strutture offshore nel Mare del Nord.