È uno dei settori economici che meglio rappresenta la spaccatura che ancora esiste tra Nord e Sud Italia. Per dirla in modo ancora più diretto, il tema dei rifiuti marca un solco ancora più profondo tra le regioni settentrionali che stanno al passo con le medie dei più avanzati paesi del nord europee e le regioni meridionali. Le quali non sono solo offrono servizi più arretrati, ma – in molti casi – violano persino le direttive di Bruxelles. Ma il settore rifiuti è arrivato alla sua battaglia decisiva. E non potrebbe più permettersi di perderla. Perchè in ballo ci sono oltre 7 miliardi di investimenti necessari per far rientrare l’Italia nel novero delle nazioni al passo con «la corretta gestione del ciclo dei rifiuti che riveste un ruolo fondamentale perché garantisce controllo e tutela ambientale e al contempo consente alla risorse, sia materiali che energetiche) di non venire sprecate ». Lo scrive un documento di Utilitalia, l’associazione che raccoglie le società dei servizi pubblici, controllate dagli enti locali: le aziende che vi aderiscono coprono il 55 per cento della popolazione. Basta dare un’occhiata ai numeri principali del settore per capire ancora meglio di cosa si stia parlando.
In Italia, su una produzione annua di 488 chilogrammi di rifiuti pro-capite (leggermente più alta della media europea a 474 chilogrammi procapite), le media della raccolta differenziata nel nostro paese è pari al 47,5 per cento del totale. Ma con una fortissima differenziazione geografica. Le regioni del Nord arrivano al 58,6 per cento di rifiuti trattati e recuperati (addirittura superiore alla media Ue), si scende poi al 43,8 per cento delle regioni del Centro Italia per precipitare al 33,6 per cento del Meridione. Quest’ultimo dato influisce molto sui numeri della raccolta differenziata nelle grandi aree metropolitane, dove vive circa un terzo degli italiani (22 milioni di persone) con 10,9 milioni di rifiuti prodotti (su un totale di 29,5 milioni), la parte recuperata è del 40,8 per cento. La spaccatura in quanto accade nel settore rifiuti risulta ancora più evidente se si prendono in esame debolezze e punti di forza. Nel primo caso, i fattori negativi vanno da un eccessivo groviglio di norme e competenze talvolta in contraddizione tra di loro alla mancanza di uno strumento che assicuri con continuità gli investimenti.
Il primo ostacolo è normativo: le leggi, oltre a essere in continua evoluzione, arrivano da una serie di fonti sovrapposte (hanno competenza sia lo Stato che le Regioni e le province) e spesso in conflitto tra loro. Lo stesso vale sulla gestione del servizio: anche in questo caso le competenze sono diverse, e qui si inseriscono, oltre ai tre livelli già citati anche i Comuni e gli Ato (gli ambiti territoriali operativi che raggruppano più comuni). Come scrive nel suo documento Utilitalia «il sistema di governance è eterogeneo, incoerente e stratificato. Ostacola la crescita industriale del settore, ancora caratterizzato da molti operatori di piccola e piccolissima dimensione che non riescono nemmeno ad accedere al credito per effettuare gli investimenti minimi necessari a garantire un servizio di qualità, efficace ed efficiente». Il secondo problema riguarda la mancanza di impianti per il recupero dei rifiuti, il che comporta che il 28,4 per cento dei rifiuti raccolti finisce ancora in discarica: una percentuale che nelle regioni meridionali sale ancora di più, fino a superare il 50 per cento. Il che ci mette contro le direttive europee, con multe milionarie annesse, come nel caso delle discariche in Campania.
Questo ci porta alla questione economica: di quanti investimenti avrebbe bisogno il settore per mettersi al pari del resto d’Europa e ai fabbisogni dei cittadini? Secondo i dati, gli investimenti effettuati nel quinquennio 2011-2015 sono stati 1,3 miliardi di euro (pari al 33,5 per cento del valore della produzione di tutto il settore), ma secondo il parere degli esperti il fabbisogno si aggira attorno a 6-7 miliardi. Entrando nel dettaglio: per la fase della raccolta, selezione e valorizzazione occorre 1 miliardo, per il trattamento della frazione organica 1,5-2 miliardi, per il recupero di materie ed energia dei rifiuti indifferenziati 3,5-4 miliardi. Quest’ultimo è anche il punto più controverso: si sta parlando di inceneritori, gli impianti più contestati dalle comunità locali ogni volta che ne viene progettato uno. Anche se sarà difficile risolvere il problema della chiusura delle discariche nel Meridione senza l’apporto del termovalorizzatori. Soprattutto se si vuole evitare, come sta accadendo per Roma, di dover trasportare i rifiuti prodotti via treno o via camion, nelle regioni settentrionali dotate invece di inceneritori.
Per spingere gli investimenti, da tempo è stata individuata la strada di trasformare la tassa sui rifiuti in tariffa, in modo che sia omogenea per tutta Italia, sul modello di quanto fatto per la tariffa sull’utilizzo dell’acqua potabile. E affidare all’Autorità dell’Energia, la determinazione del riconoscimento degli investimenti realizzati dagli operatori. Un provvedimento già contenuto nella riforma Madia (che nel suo complesso fu bocciata dalla Consulta) e ora affidata a un emendamento nella legge di Bilancio. Il quadro, in ogni caso, non è del tutto negativo. Non mancano eccellenze e società di primo livello, per quanto concentrate nel centro- nord Italia. Questo ha permesso, per esempio, di migliorare le prestazioni rispetto al resto d’Europa: in quattro anni, la media nazionale di raccolta differenziata è aumentata di 10 punti, passando dal 37,5 al 47,5 per cento.
In contemporanea, si è ridotta la quota di rifiuti finita in discarica, è passata dai 13,3 milioni di tonnellate del 2011 ai 7,8 milioni del 2015. In alcuni casi specifici, il settore ha già raggiunto gli obiettivi europei. E’ il caso degli imballaggi, dove la quote di recupero è arrivata al 65 per cento. Lo stesso vale per la componente organica: «Mentre molti paesi europei – scrive Utilitalia – non hanno ancora sviluppato la raccolta differenziata di questa frazione, gli italiani ne raccolgono mediamente 100 chilogrammi ogni anno producendo biogas, biometano e fertilizzante agricolo. Infine, il riciclaggio: tra carta, vetro, plastica, legno o materiale organico, in Italia si producono 15 milioni di tonnellate di materie prime “seconde”. Record che rischiano di passare in secondo piano se non si troverà il modo di incrementare gli investimenti destinati a nuovi impianti. E l’unico treno sarà quello che porta all’estero i nostri rifiuti.