L’inganno potrebbe celarsi dietro l’origine del prodotto: di matrice vegetale. Ma l’olio di palma, finito negli ultimi anni sul banco degli imputati per l’impiego nell’industria alimentare e per le possibili ripercussioni sulla salute, non è una fonte energetica sostenibile. Il suo utilizzo come biocarburante rischia infatti di essere «anche peggiore rispetto ai combustibili fossili che negli ultimi anni è andato a sostituire», a causa sopratutto dell’utilizzo indiretto del terreno. Parola dell’esperto di politiche energetiche e ambientali Chris Malins, che su commissione della Fondazione norvegese per la tutela delle foreste pluviali ha redatto un rapporto che il Parlamento scandinavo ha esaminato, prima di giungere al divieto di utilizzare l’olio di palma come biocarburante sull’intero territorio nazionale. La Norvegia è il primo Paese a vietare questa forma di impiego. Ma entro il 2020 il fronte potrebbe allargarsi. L’assise europea ha infatti già chiesto alla Commissione di sollecitare lo stop all’impiego nei prossimi tre anni.
La presa di posizione della Norvegia
Lo stop rappresenta un duro colpo per l’industria dell’olio di palma, per anni considerata più sostenibile rispetto ad altre concorrenti: in ragione della maggiore produttività della palma da olio rispetto ad altre specie vegetali, a parità di ettari coltivati. Se finora i toni del dibattito erano stati più elevati soprattutto riguardo all’utilizzo dell’ingrediente da parte dell’industria alimentare, con un notevole contraccolpo sul mercato, la decisione assunta dalla Norvegia rischia di aprire una breccia anche sul fronte del consumo energetico. Il parere della Fondazione per la tutela delle foreste pluviali, d’altra parte, è stato perentorio: «L’utilizzo dell’olio di palma come biocarburante è collegato alla distruzione di foreste pluviali e, di conseguenza, all’aumento delle percentuali di carbonio dissolte nell’atmosfera».
I dati che gli ambientalisti hanno portato a sostegno della loro tesi sono significativi. Tra il 2001 e il 2014, soltanto nel Borneo indonesiano, sarebbero state rilasciate più di 7,8 milioni di tonnellate di carbonio a seguito del dissolvimento delle foreste. Gli esperti, sull’onda di quanto già fatto da Greenpeace nel 2015, hanno richiamato l’attenzione sulla frequente abitudine di prosciugare e bruciare le torbiere per rendere quei terreni pronti a ospitare piantagioni di palma da olio. Una soluzione che presuppone il loro incendio e, dunque, lo sprigionamento di robuste quantità di anidride carbonica.
Secondo gli esperti, «se fossero ossidati i 70 miliardi di tonnellate di carbonio custodito dalla torbiere della Malesia e dell’Indonesia, si otterrebbe in un solo colpo l’emissione di un quantitativo di anidride carbonica pari a quello che oggi misuriamo in sette anni». A questo aspetto, costituente il rovescio della medaglia della produzione di olio di palma come biocarburante, nel rapporto ne risultano aggiunti altri: dall’esproprio estensivo di terre da parte delle multinazionali alla perdita di biodiversità, fino alle violazioni dei diritti umani che si consumerebbero a carico dei lavoratori. Le conseguenze sono ritenute più rilevanti soprattutto per i due Stati del sud-est asiatico: dove risulta coltivato l’85 per cento delle palme da olio, su oltre 16 milioni di ettari di suolo.
L’Italia è il primo utilizzatore in Europa di olio di palma come biocarburante
Gli automobilisti sono i principali consumatori di olio di palma in Europa. Nel 2015, il 46 per cento di tutto il biocarburante circolato nel Vecchio Continente è finito nei serbatoi di vetture e camion. I consumi sono cresciuti in maniera esponenziale in cinque anni: passando da 2,76 milioni a 3,22 tra il 2010 e il 2014. Nello stesso periodo, in Europa sono calati i consumi di olio di soia (da 555 a 440mila tonnellate). Un dato che, secondo gli esperti, dimostra la tendenza a lasciare spazio ai biocarburanti derivati dall’olio di palma, considerati più competitivi. L’Italia, secondo alcune elaborazioni da parte della Federazione europea per i trasporti e l’ambiente, è il principale utilizzatore di olio di palma per la produzione di biodiesel: davanti alla Spagna e ai Paesi Bassi. Lungo la Penisola sarebbero quasi seicentomila le tonnellate consumate nel 2014, proprio mentre la campagna contro l’utilizzo dell’olio vegetale da parte dell’industria alimentare iniziava a decollare. All’utilizzo nei serbatoi dei mezzi motorizzati, occorre aggiungere quello come biocombustibile negli impianti di riscaldamento di appartamenti e luoghi di lavoro.
Transizione davvero “verde”?
La lavorazione dell’olio di palma a scopo energetico avviene nelle «bioraffinerie», nuove realtà nate anche da processi di riconversione industriale. Ne sono un esempio quelle per la produzione di biocarburanti esistenti a Crescentino (Vercelli), Porto Torres e Marghera. Analoga è la transizione in corso a Gela (Caltanissetta), sempre a opera di Eni: dove a riconversione ultimata l’olio di palma grezzo sarà trattato assieme ad alimenti di scarto, grassi animali e oli di frittura esausti. L’evoluzione «verde» è avvenuta con un duplice obiettivo: salvaguardare i posti di lavoro e convertirsi a produzioni più sostenibili. Ma dalla Norvegia, oggi, arriva un monito: l’olio di palma non può essere considerato più sostenibile rispetto al vecchio gasolio.